Nell’attesa che le urne vengano aperte integralmente al pubblico il 9 agosto, il giorno in cui si terranno le presidenziali più importanti e incerte della storia della Bielorussia, alcuni seggi sono stati già aperti la mattina del 4 per snellire il traffico degli elettori e rendere possibile a chiunque l’esercizio del proprio diritto di voto, sulla falsariga del modello adottato in Russia in occasione del recente referendum costituzionale.
Negli stessi istanti in cui i primi elettori hanno iniziato a recarsi ai seggi, il presidente Aleksandr Lukashenko ha voluto fare un discorso alla nazione carico di rancore nei confronti del Cremlino; messaggio che si somma alla discesa in piazza a Minsk di circa 60mila persone, radunate dalla liberale Svetlana Tikhanovskaya all’indomani dell’arresto di 33 paramilitari del Gruppo Wagner. Ciò che sta accadendo è chiaro: con o senza Lukashenko, il futuro della Bielorussia sembra che sarà in Occidente.
Il discorso di Lukashenko
Il 4 agosto, in occasione dell’apertura delle prime urne, Lukashenko ha voluto parlare ai parlamentari e ai concittadini per reiterare quella che è la sua visione sulle presidenziali di quest’anno e su quanto sta accadendo nel mondo, ovvero la pandemia e la nuova guerra fredda, su quanto sta accadendo con la Russia. I passi più significativi del discorso alla nazione riguardano proprio i rapporti con il Cremlino e non lasciano spazio a dubbi su quello che sarà il probabile futuro del Paese.
L’inizio del messaggio può effettivamente trarre in inganno, ma ad essere rilevante è il modo in cui evolve. “La Russia ha paura di perderci perché non le è rimasto più nessun vero alleato, mentre l’Occidente ha iniziato a dedicare un interesse sostanziale nei nostri confronti. La nostra risposta è nota: la Bielorussia non si fa amico qualcuno per usarlo contro qualcun altro. Noi sosteniamo una politica estera consistente e prevedibile. La Russia è stata, è e continuerà ad essere il nostro più stretto alleato, chiunque si trovi al potere qui o in Russia. Si tratta di qualcosa di profondo, insito nelle nostre nazioni, anche se la Russia ha trasformato i legami fraterni in una relazione tra collaboratori. E [lo ha fatto] invano!”
Ed è a questo punto che inizia la pioggia di critiche e accuse all’indirizzo del Cremlino e viene indicato il percorso che dovrà seguire la Bielorussia in futuro. Secondo Lukashenko, uno degli imperativi del Paese nel post-elezioni sarà lo stabilimento di “partenariati strategici con l’Occidente, gli Stati Uniti, la Cina, i nostri vicini e i Paesi più lontani”. La diversificazione dei partner sarà funzionale all’emancipazione di Minsk da Mosca, dalla quale dipende per l’approvvigionamento energetico, per la crescita economica e per la prosperità di numerosi settori.
Lukashenko, sin dall’inizio della campagna elettorale, ha fatto della preservazione dell’indipendenza e della sovranità del Paese il proprio cavallo di battaglia e ha puntato il dito contro il dito la Russia. Nel corso del discorso vengono espressi i motivi del malcontento alla base della rivalutazione dell’intera relazione: “In questa difficile situazione [ndr. la pandemia] abbiamo deciso di non chiudere le nostre imprese, contrariamente al resto del mondo, e abbiamo destinato 500 milioni di rubli in più dal bilancio pubblico a coloro che hanno avuto maggiormente bisogno del supporto statale. Tutto questo è avvenuto perché, a causa del conflitto per il petrolio con la Russia, non siamo riusciti a vedere l’entrata nel nostro bilancio di 1 miliardo e 500 milioni di rubli”.
Le invettive proseguono, procedendo dalla recente disputa energetica alle presunte perdite subite negli anni recenti per via del trattamento sfavorevole ricevuto da parte russa: “I risultati della situazione attuale ci hanno mostrato che l’elevata dipendenza esterna da uno o due Paesi ci mette in una posizione vulnerabile. Per via di guerre commerciali, prezzi sleali e prestiti costosi, il Paese ha perduto 9 miliardi e 500 milioni di dollari in termini di crescita economica negli ultimi cinque anni […] [Quel denaro avrebbe significato maggiori] pensioni, borse di studio, stipendi per i dipendenti statali e supporto per le famiglie”.
Preso atto della tossicità e dell’anti-economicità di un rapporto simbiotico con la Russia, il presidente bielorusso ha dichiarato che “abbiamo tratto le conclusioni e stiamo già implementando una strategia che garantisca, entro il 2025, la riduzione al minimo di tali fattori”.
Il discorso alla nazione non ha bisogno di un’eccessiva decodificazione perché il suo significato è abbastanza evidente: entro cinque anni il Paese dovrà affrancarsi dalla simbiosi plurisecolare con la Russia, trovare nuovi sbocchi di mercato, nuovi prestatori, nuovi collaboratori economici e nuovi fornitori di materie prime, risorse naturali ed energia. È chiaro che un allontanamento motivato da ragioni economiche sarà propedeutico ad una rottura integrale, ovvero anche politica e diplomatica, e in tal senso va letta la decisione di Lukashenko di ricorrere all’arma della minaccia russa per guadagnare consensi e stringere la nazione attorno a sé.
Ma non è soltanto il presidente uscente a volere uno strappo diplomatico. Svetlana Tikhanovskaya, la principale rivale di Lukashenko, è promotrice di un programma politico che prevede un allontanamento dalla Russia, con annesso l’annullamento del progetto di fusione dei due Paesi, la costruzione di relazioni amichevoli con il vicinato europeo e la de-russificazione.
Quest’ultimo punto è estremamente importante, oltre che eloquente, poiché la storia recente insegna che la comparsa di forze politiche che sventolano la bandiera della de-russificazione, intesa come la de-costruzione del predominio del russo quale lingua franca delle istituzioni, dell’istruzione e della cultura, è il primo passo verso la fuoriuscita dalla sfera d’influenza di Mosca. È accaduto nei Paesi Baltici, quindi in Georgia e in Ucraina, negli anni recenti la guerra culturale contro il russo si è poi spostata nell’Asia centrale ex sovietica e in Moldavia, e adesso è giunta anche in Bielorussia.
Bielorussia in subbuglio
Il punto di non ritorno fra Bielorussia e Russia sembra essere stato toccato il 29 luglio, quando alle prime luci dell’alba un’operazione delle forze di sicurezza di Minsk ha condotto all’arresto di 33 cittadini russi, accusati di essere membri del famigerato gruppo Wagner in procinto di disseminare il caos nel paese.
La mattina seguente, le autorità bielorusse hanno annunciato l’apertura ufficiale di un caso contro gli arrestati, che si ritiene fossero coinvolti in una trama terroristica, spiegando di credere che fossero parte di un gruppo di oltre 200 militanti del cui arrivo i servizi segreti erano stati informati nei giorni precedenti. Tuttavia, non è da escludere che i militari privati si trovassero a Minsk per una semplice sosta nell’attesa di rincasare a Mosca dopo aver trascorso un periodo operativo all’estero o, al contrario, che fossero appena partiti e in procinto di essere redirezionati in Africa, Medio Oriente o Ucraina orientale.
Dare credito a questa ipotesi condurrebbe automaticamente a catalogare l’intera operazione come un’opera di propaganda elettorale architettata da Lukashenko per stringere i votanti attorno a sé e presentarsi come l’unico candidato realmente capace di difendere l’interesse nazionale e salvaguardare l’indipendenza e la sovranità del Paese.
Nei giorni seguenti all’arresto, la Tikhanovskaya ha portato in piazza 60mila persone, dando luogo al più grande raduno di protesta politica nella storia recente del Paese e mostrando quanto i sentimenti antirussi e la disaffezione verso lo status quo siano ormai diffusi nell’opinione pubblica. In definitiva, che si tratti di un’operazione propagandistica o meno, quell’operazione ha contribuito a svelare una realtà fino ad oggi trascurata.