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Sono le prime ore del mattino a Beni, città del Nord Kivu nell’estremo est della Repubblica Democratica Del Congo, e una nebbia spessa si solleva lentamente lasciando scorgere una bellezza empirea tutt’intorno. La città congolese, a 1100 metri di altitudine, tra il Lago Alberto e il Lago Kivu, tra il Congo e l’Uganda, è assediata da foreste di un verde talmente intenso che sfuma in un nero impenetrabile. Le montagne che la circondano, quelle dell’altipiano del Rwenzori e del parco del Virunga, viste in lontananza, hanno lo stesso colore blu del cielo, e la terra, rossa e feconda, è uno sconfinato forziere di minerali.
Beni è un paradosso storico e geopolitico con cui è impossibile venire a patti perché queste ambe, tripudio di una ricchezza trascendente, sono anche il proscenio di ingiustizie vertiginose e di diseguaglianze incommensurabili. Questa città, nel 2019, è stata l’epicentro della prima epidemia di Ebola in un contesto di guerra e la più feroce per numero di bambini colpiti. Oggi è il cuore del conflitto tra la formazione jihadista degli ADF e gli eserciti del Congo e dell’Uganda, che hanno unito le proprie forze per cercare di eradicare la ribellione degli islamisti.
É ancora l’alba, ma un’isteria collettiva si è impossessata della città. Dalle radio e dai telefoni si diffonde la notizia di un massacro avvenuto a poche decine di chilometri di distanza dal capoluogo. Le prime testimonianze raccontano di una strage consumatasi nella notte nel piccolo villaggio di Mutuej e riferiscono di sette persone uccise. A Beni tutti parlano dell’accaduto e un panico dettato dallo sgomento e dalla collera infetta in poco tempo l’intero centro abitato.
La guerra, nonostante la proclamazione dell’ état de siege, prosegue senza un’apparente soluzione di continuità: le bande armate infestano il territorio, le milizie jihadiste fanno del terrore lo strumento con cui imporsi ed estendere il proprio controllo. Nessuno si sente protetto e la frustrazione corale è manifesta nelle centinaia di dimostranti che si riversano nelle strade, dopo aver appreso dell’ultima tragedia avvenuta, invocando pace e diritti.
Usciti dal caotico centro abitato e procedendo in direzione di Oicha, si è però improvvisamente investiti da un silenzio antitetico e spettrale. La strada che conduce verso il luogo dove si è consumata la strage corre nel mezzo di una muraglia verde e per chilometri non si vedono altro che cespugli, piante, frasche e arbusti impenetrabili. La boscaglia è interrotta soltanto da piccoli villaggi ormai disabitati che punteggiano l’arteria nazionale e dove sono ancora visibili gli attrezzi della vita di ogni giorno, prima di una fuga precipitosa e senza ripensamenti: una tanica dell’acqua, una zappa, i resti di un fuoco; tracce di cos’era la quotidianità qualche istante prima che tutto finisse.
Ai limiti della foresta appare Oicha e, appena fatto l’ingresso in città, ci si imbatte subito in decine di persone che, in ossequioso silenzio, si dirigono verso l’ospedale. E’ sufficiente seguirli per raggiungere l’obitorio, avere così comprensione della strage che si è consumata e rimanere sconvolti e muti alla visione di un delirio d’odio senza ragione e senza risposte.
Nella piccola camera mortuaria una dozzina di corpi sono ammassati gli uni sopra gli altri. L’odore di disinfettante non riesce a sovrastare quello di morte che penetra nelle narici e stringe la bocca dello stomaco. Alcune vittime presentano i segni dei colpi dei kalashnikov, altre quelli delle mutilazioni inferte con i machete e con i coltelli, altre ancora sono state decapitate. Il personale dell’ospedale inizia a preparare le bare per procedere con le sepolture, intanto però il numero dei corpi trasportati nell’obitorio aumenta.
Due infermieri sopraggiungono con una barella sulla quale è stato adagiato un corpo esanime appena rinvenuto nella foresta. Il lenzuolo che copre la vittima durante il trasporto scivola per terra e improvviso appare il volto sfigurato di una giovanissima donna, poco più che un’adolescente, a cui è stata tagliata la gola. ”Basta! Basta! Basta! Non ne possiamo più di tutto questo. Ogni giorno ci sono massacri, ogni giorno. E dov’è il mondo? Dov’è l’Europa? Dove sono gli Stati Uniti? Cosa fanno le Nazioni Unite? Ci mandate i sacchi di farina come aiuti umanitari anche se viviamo nella terra più fertile del mondo, ma non fate niente per mettere fine a tutto questo. Perchè? Ditemelo: perchè? Noi abbiamo bisogno soltanto della pace”.
É un urlo che nasce dall’esasperazione e che si scaglia contro ogni artificio retorico della compassione quello lanciato da un parente seduto fuori dalla camera mortuaria. E gli fanno seguito centinaia di grida di disperazione intervallate da lacrime e singhiozzi. La popolazione maledice gli ADF, la milizia islamista colpevole del massacro, attacca l’esercito congolese e le forze dell’ordine, accusate di non esser in grado di porre fine alle violenze, e non lesina critiche sulla missione della MONUSCO, da 22 anni dispiegata nel Paese africano e sotto attacco per non aver stabilizzato e pacificato la regione come si prefiggeva di fare a inizio mandato.
I responsabili della strage compiuta nel villaggio di Mutuej sono gli ADF, Allied Democratic Forces, un gruppo armato jihadista, nato in Uganda, radicalizzatosi nel tempo, che dal 2013 ad oggi ha intensificato gli attacchi e le azioni nel Nord Kivu e nel 2017 ha giurato fedeltà a Daesh ribattezzandosi ISCAP, Provincia dello Stato Islamico in Africa Centrale. La guerra degli jihadisti ha aggravato una situazione già estremamente precaria e solo negli ultimi tre mesi, nelle province orientali del Paese, le vittime delle violenze sono state più di 1500, stando a quanto riporta il Kivu Security Tracker.
Gli ADF, che vantano tra le proprie fila anche foreign fighters e sono accusati di aver commesso stupri, esecuzioni sommarie, rapimenti nonché di arruolare bambini, hanno ripetutamente dichiarato di voler instaurare il Califfato nei territori orientali. Analisti e opinione pubblica ritengono però che il vero obiettivo dei salafiti sia quello di accaparrarsi una porzione della ricchezza del Congo. A causa dell’incancrenirsi del conflitto, si è aggravata anche la crisi umanitaria nel Paese. I profughi nella nazione, secondo l’ultimo report dell l’UNHCR, son più di 5 milioni e il World Food Programme ha dichiarato, nel suo ultimo report sulla Repubblica Democratica del Congo, che sono 22 milioni le persone che soffrono la mancanza di cibo .
“Lo stato c’è. Lo stato congolese con il suo esercito e le sue forze di polizia sta conducendo un’offensiva nell’est del Paese per sconfiggere i terroristi dell’ADF. Grazie all’état de siege stiamo ripristinando l’ordine e la sicurezza”. Il colonnello Charles Omeonga, dopo essersi recato nella città di Lume, piccolo villaggio ai piedi del massiccio del Rwenzori, accerchiato da montagne e gruppi armati, descrive con toni entusiastici l’operato delle truppe regolari ed elogia l’introduzione della legge marziale da parte dell’esecutivo di Thsisekedi.
Da maggio infatti, nelle province dell’Ituri e del Nord Kivu, è in vigore l’état de siege, un provvedimento attraverso il quale le autorità civili sono state sostituite da quelle militari e queste, grazie al regime speciale introdotto, godono di poteri speciali: possono effettuare perquisizioni nelle case, vietare le riunioni pubbliche e applicare leggi che limitano la circolazione dei cittadini.
Questa misura straordinaria, introdotta per porre fine all’insurrezione jihadista e all’insicurezza che regna nell’est, è in vigore da oltre otto mesi e, a dispetto di quanto dichiarato dall’ufficiale dell’esercito regolare, il provvedimento è osteggiato dalla popolazione, secondo la quale la militarizzazione del territorio non ha portato a nessun cambiamento, ma solo inasprito la violenza. “Stando a quanto dicono studiosi e ricercatori il numero delle vittime civili è aumentato dall’applicazione della legge marziale , rispetto al periodo precedente la sua introduzione”.
A parlare è Fabrice Mulali, membro di Lucha, un’ organizzazione pacifista e apolitica che si batte per il rispetto dei diritti civili in Congo. E l’attivista prosegue dicendo: ”Nelle regioni del Nord Kivu e dell’Ituri, a causa della militarizzazione del territorio, si è riscontrato un aumento della violenza. Violenza come soluzione alla violenza: questo, in sintesi, è il frutto del provvedimento e, sebbene non abbia portato ai risultati sperati, continua a perdurare. Il prezzo più alto di questa politica, però continua a pagarlo il popolo congolese, vittima di abusi, repressione e violenze di ogni sorta”.
Le parole dell’attivista sembrano prevedere quanto avviene all’indomani quando, nella città di Beni, durante una manifestazione di protesta contro il potere dei militari, la polizia apre il fuoco sui dimostranti e uccide Ushindi Mumbere. Un giovane di soli 23 anni.
Durante i funerali del ragazzo, migliaia di persone si riversano nelle strade. Tutti i gruppi della società civile partecipano alle esequie e un corteo di centinaia di persone sfila, accompagnando il feretro per la città. Il ritratto del giovane studente assassinato è riproposto sulle magliette indossate dai militanti congolesi e sugli striscioni che aprono il corteo. Sventolano le bandiere del Congo insieme a quelle dell’organizzazioni civili e, con il proseguire della manifestazione, il dolore aumenta e si mescola con la rabbia. ”Polizia come ADF”, recita uno striscione. ”Saremo sempre troppi perché possiate ucciderci tutti!”, grida la folla. Il servizio d’ordine impedisce che la situazione degeneri al passaggio di un blindato della MONUSCO.
Dopo il lancio di qualche sasso in direzione del mezzo delle Nazioni Unite il corteo riparte e tutti i partecipanti, interrogati su quali siano le loro richieste e le loro rivendicazioni, rispondono all’unisono: ”pace e libertà!”. Libertà di vivere, di sognare, di potere concepire, almeno in potenza, un’idea di futuro. E c’è una scritta, dipinta sul muro dell’obitorio cittadino, capace, nella sua immediatezza, di riassumere tutte le richieste della cittadinanza: ”Stop massacre!”, Basta massacri. Indipendentemente da chi vengano compiuti e in nome di quale ideologia, fede o eresia.