La Cina è stata la prima nazione ad essere colpita dal nuovo coronavirus e ora è anche la prima a esserne quasi uscita. Dando un’occhiata all’Asia, notiamo come vari Paesi siano pressoché riusciti a domare l’avanzata del Covid-19, e non tutti utilizzando necessariamente una quarantena stringata come Pechino.
In Corea del Sud, ad esempio, si è deciso di puntare sui tamponi a tappeto e sulla condivisione capillare degli spostamenti dei malati (riportati in specifiche applicazioni e siti). A Taiwan è stata allestita una macchina organizzativa invidiabile mentre il Giappone ha imposto poche regole ferree ma, almeno a giudicare dai numeri, efficaci. Discorso a parte meritano Hong Kong e Singapore le quali, date le loro dimensioni, sono riuscite a gestire ancora meglio la diffusione della malattia.
È dunque corretto dire che l’Asia ha vinto la guerra contro il coronavairus? Non ancora, e per due ragioni ben precise. La prima: non tutti sono riusciti a ottenere gli stessi risultati di Pechino. La seconda: i contagi di ritorno non solo fanno paura, ma potrebbero addirittura appiccare nuovi incendi.
Una vittoria di Pirro?
Negli ultimi giorni i numeri asiatici legati al contagio sono tornati ad aumentare. Secondo quanto riportato dal Financial Times i governi di Corea del Sud, Taiwan e Cina sono pronti a varare nuove misure di fronte a una seconda ondata di infezioni. A detta degli esperti, l’improvviso aumento dei casi sarebbe da collegare a limiti insiti nella strategia di distanziamento sociale portata avanti in quasi tutta l’Asia. Già, perché mentre i contagi interni sono tenuti sotto controllo, quelli provenienti dall’estero aumentano drasticamente.
Ben Cowling, professore di epidemiologia dell’Università di Hong Kong ha spiegato che le misure fin qui adottate hanno portato a “un successo temporaneo” e non certo a un “successo permanente”. Finché la situazione è dinamica, il virus non si propaga – anzi: i contagi diminuiscono – ma non appena torna la mobilità, le infezioni tornano a salire.
Le seconde ondate
Scendendo nel dettaglio, la Cina ha progressivamente rallentato le restrizioni dopo il blocco nazionale iniziato a dicembre (e culminato con il lockdown del 23 gennaio). Parallelamente il numero di casi di coronavirus importati è salito dai meno di 50 casi di due settimane fa ai 155 attuali. Le autorità hanno dichiarato che dall’11 marzo a oggi – cioè da quando l’Oms ha etichettato il virus come una pandemia – sono entrate in Cina circa 120mila persone al giorno. Pechino ha così imposto una quarantena obbligatoria di 14 giorni per tutti i viaggiatori, indipendentemente dalla storia dei loro viaggi e dalle loro condizioni di salute.
In Corea del Sud l’allarme viene da alcune strutture ad alto rischio, come le chiese e le case di cura. I funzionari sono si sono subito allarmati a causa di questi nuovi focolai, tanto da considerare le prossime due o tre settimane “cruciali” per capire in che direzione prenderà l’epidemia.
Taiwan sta chiudendo i confini a tutti gli stranieri e, allo stesso tempo, intensificando le misure di quarantena sui propri cittadini. A Hong Kong il 17 marzo il numero di nuovi casi è salito a 168. Un dato che fa riflettere è che il 90% degli infetti aveva viaggiato di recente. Anche Singapore, nonostante gli elogi ricevuti, si prepara a un incremento. “Prevediamo – ha spiegato il primo ministro Lee Hsien Loong – un numero maggiore di casi importati e, quindi, nuovi cluster e nuove ondate di infezione, questa volta provenienti da molti paesi anziché da uno o due”.